Nell’epoca del turismo di massa, dei voli low cost, della globalizzazione e del “tutto e subito”, c’è ancora qualcosa, di molto semplice, che può farci sentire viaggiatori speciali. Parte di un’avventura che in troppo pochi si concedono il piacere di sperimentare.
Nei tempi dell’area Schengen, noi quasi trentenni ricordiamo ormai lontanamente – sempre che abbiamo avuto il privilegio di viaggiare da piccoli – cosa significhi attraversare una vera e propria frontiera in Europa: essere fermati per un controllo, esibire un documento e attendere pazientemente prima di varcare una linea immaginaria.
Così, prima di poterlo sperimentare di persona, già Tiziano Terzani nei suoi lunghi e lenti viaggi in Asia mi aveva affascinato con l’idea di come l’aereo, oltre ad aiutarci ad abbattere i tempi, abbatta anche quella diversità che invece ricerchiamo mettendoci in viaggio.
Lontani dai propositi di ricerca e studio degli esploratori, abbiamo iniziato a spostarci da un punto all’altro dimenticandoci di tutto ciò che sta in mezzo. Viaggiare lentamente e via terra è un privilegio che ci concediamo troppo poco.
Perché proprio alcuni dei ricordi di viaggio più belli che ho adesso sono quei lunghi spostamenti via terra quando paesaggi e vita li vedevo scorrere e mutare lentamente dal finestrino. Prima ci sono stati i viaggi in bus con la gente del posto in Marocco, in particolare nel polveroso sud del paese; poi uscire da quella metropoli inquinata che è Lima per attraversare le periferie più povere; i villaggi della Bolivia e le terre sconfinate del Cile; la tensione ai check point fra Israele e Palestina. E in mezzo, quel brivido di frontiere mai attraversate prima; l’adrenalina di controlli che non si sa mai quanto impiegheremo a superare: “ho tutto quello che mi serve?”, “ma ci chiederanno qualche vaccino?”.
Ma ci sono frontiere e paesi che più degli altri mi hanno fatto sentire più forte che mai la Terra sotto i miei piedi, il peso di un’umanità che rinasce ogni volta. Parlo dei Balcani. Proprio in questi giorni torno a sognare di nuovo l’est, grazie ai racconti di Paolo Rumiz in “È oriente“. Torna la voglia di prendere una cartina, srotolarla, e disegnare con la mente e la matita percorsi lunghi e tortuosi alla scoperta di città e paesini che, passo dopo passo, mi portano sempre un pochino più a oriente. Tanto da vedere popolazioni e città cambiare fisionomia e carattere davanti ai miei occhi. Attraverso grandi pianure e fiumi leggendari, sui passi della storia, quella che collegava intimamente il profondo oriente all’Italia.
Non solo muovendomi in auto – come avevo fatto tra Croazia, Bosnia e Montenegro – ma soprattutto muovendomi in bus – tra Bulgaria, Serbia e Ungheria – ho potuto osservare persone, a pochi chilometri dai nostri confini, di fatto europee, ma allo stesso tempo già così diverse. Persone che, nonostante la vicinanza, da ormai molto tempo percepiamo come “altro”, distanti ed estranei.
Lunghe ore di bus accanto alle persone più disparate, testimone di piccoli modi di essere e di fare che danno un senso a tutte le attese. Testimone di una popolazione – quella dei Balcani in generale – spesso vista come irrequieta, litigiosa e minacciosa, la cui fama è segnata profondamente dalla storia recente. Una popolazione che in verità dovrebbe ricordarci forza e perseveranza; il coraggio di reinventarsi e la ricerca di nuove opportunità anche lontano dalla propria terra.
Ad ogni frontiera il nostro bus aspetta paziente il suo turno, così che davanti alla sbarra possiamo scendere tutti e mostrare il nostro passaporto agli agenti. Ma non ci sono solo bus che trasportano passeggeri che viaggiano piuttosto leggeri. I più controllati, i più sospetti, quelli di cui gli agenti più diffidano – in particolare in Ungheria – sono le auto che trasportano famiglie numerose e bagagli che probabilmente contengono tutta una vita. Abiti che escono e che fanno capolino ovunque, buste piene di cibo, talvolta animali e biciclette stipati ovunque. Non c’è neanche da dirlo che i controlli per queste auto sono ben più lunghi che per i nostri bus. Il nostro autista, in un inglese stentato, ci dice che una volta arrivati al confine queste famiglie – molte rom – non hanno certezza di quando riusciranno a passare: a volte possono essere due ore, a volte sei. E che la merce che trasportano, in particolare il cibo, potrebbe facilmente finire a rifocillare le pance già belle piene degli agenti di confine.
Caldo, sudore, bambini irrequieti, auto stracolme e scomode.
E i bagni. Ho scoperto che di un luogo e della sua gente si capisce molto anche da come utilizzano un bagno pubblico. Ovviamente sto parlando di bagni “alla turca”, dove bambini scalzi si avventurano da soli non curanti di tutto e tutti e dove un signore dall’aria minacciosa riscuote 1€ per l’utilizzo, ma nessuno si preoccupa di tenere un minimo pulito.
Attraverso questi lunghi viaggi in bus, fra lingue e storie varie che arrivano al tuo orecchio, nelle attese c’è anche il tempo di fare amicizia. E capirsi, nonostante nessuna lingua in comune. Alla frontiera fra Serbia e Ungheria, ho conosciuto una simpatica coppia di serbi: lui sacerdote ortodosso di origine greca che parla appunto greco, serbo, rumeno… e latino. La coppia stava andando a trascorrere 3 giorni di vacanza a Vienna ed erano curiosissimi di capire da dove venissi e dove andassi.
Dove altro avrei potuto fare due chiacchiere con queste persone? In quale occasione avrei potuto capire che basta qualche “gesto internazionale”, due parole in serbo e una in inglese per conoscersi? Come, se non imparando a concedersi il tempo di fermarsi, trattenersi, aspettare? Imparare a vedere il tempo “perso” con un mezzo lento, come tempo “guadagnato” per guardare oltre.
Bellissimo questo articolo, quanti bei spunti! 🙂
Grazie!