Tra le mete più interessanti e battute dal turismo in Bolivia c’è la città di Potosí con il suo Cerro Rico e le miniere. Ma di cosa stiamo parlando esattamente?
Perché forse non tutti conoscono la storia di questa leggendaria e importante città e di quello che ne è rimasto oggi.
Potosí, nel sud della Bolivia, è la città più alta del mondo con i suoi 4090 metri di altitudine, famosa per le sue miniere che un tempo le hanno donato ricchezza e fama. Uno sfruttamento senza scrupoli che ha arricchito la monarchia spagnola, che ha fondato la città nel 1545, e ucciso negli anni di maggiore attività circa 8 milioni di indigeni e schiavi africani. Segregati sotto terra anche per quattro mesi di fila senza la possibilità di vedere la luce del sole, costretti a lavorare fino allo sfinimento in stretti cunicoli dove manca l’aria e si respirano sostanze tossiche ed altamente nocive, al caldo soffocante oppure al freddo.
Cosa ha portato tutto questo? Una ricchezza effimera, vistosa e superficiale che ha permesso a Potosí di essere la città più ricca dell’America Latina alla fine del XVIII secolo, grande quanto Londra e Parigi e degna di un modo di dire famoso all’epoca che era “vale un Potosí” – come a indicare qualcosa che vale una fortuna.
Se ancora non lo avete fatto, e siete appassionati di Sud America, leggetevi “Le vene aperte dell’America Latina” di Eduardo Galeano che proprio in questo libro con le parole di una cholita del luogo – le signore in abiti tradizionali dalle lunghe trecce – descrive così Potosí: “La città che più ha dato al mondo e che meno possiede”.
E oggi cosa rimane di tutto ciò? Oggi rimane un Cerro non più Rico e così tanto svuotato da perdere persino la sua tipica forma conica, minatori – talvolta ancora bambini – che lavorano quasi nelle stesse condizioni di 500 anni fa, come topi in un buio labirinto, suddivisi in circa 500 differenti cave, sognando l’antica e leggendaria ricchezza che solamente nelle storie hanno sentito, accontentandosi di un poco di stagno, rame o zinco rimasto.
Il Calvario è la zona dove ogni mattina i mineros si riforniscono al mercato, messo su apposta per loro ogni giorno, dell’indispensabile: alcol e foglie di coca. Foglie di coca che vengono masticate tutto il giorno e lasciate a riposare fra le gengive e le guance deformandole e formando una palla. Le foglie di coca sono una costante di un viaggio in Bolivia, le vedrete masticare da gran parte degli uomini con cui avrete a che fare in strada: il signore con il banco di cianfrusaglie in strada, il tassista, la guida turistica, il proprietario di una guest house. Vi verranno offerte in continuazione come palliativo ad ogni male: mal di testa? Prendi un mate di coca! Non respiri bene? Mastica un po’ di foglie di coca!
Le foglie di coca diventano così indispensabili per i minatori per sopportare turni massacranti di 12 ore al caldo accovacciati nei cunicoli del Cerro Rico di Potosí, necessarie per lenire la stanchezza, respirare meglio in un ambiente asfissiante e polveroso sopra i 4000 metri e per calmare la fame, tanto da farli andare avanti per tutto il giorno anche senza mangiare.
Uno dei lavori più duri all’interno delle miniere è quello che spetta ai perforantes, cioè coloro che piazzano la dinamite e si beccano tutti i fumi più nocivi che la terra possa emettere.
Questo mondo infernale ha però persino un dio, un tío, che i minatori ogni giorno omaggiano prima di mettersi a lavoro. Una divinità dalla quale dipende la fortuna dei lavoratori che ogni mattina versano alcol puro ai piedi della scultura per ingraziarsela.
All’interno delle miniere è inoltre proibito l’ingresso alle donne che si dice potrebbero scatenare la gelosia della madre terra – la Pachamama. Non che il Cerro Rico risparmi le donne dai lavori usuranti che girano intorno alle miniere; le donne spesso ricoprono il ruolo di palliri, raccogliendo le pietre all’esterno oppure facendo le guardiane all’ingresso.
Un’esperienza all’interno di questo inferno è ormai alla portata anche dei turisti che possono comodamente prenotare un tour di qualche ora con le diverse agenzie presenti nel centro di Potosí.
La nostra permanenza a Potosí è coincisa con la festa di Ognissanti che dura 3 giorni nei quali i minatori non lavorano. Complice questa coincidenza, i nostri dubbi sul fare o non fare questo tour, per ragioni di sicurezza, claustrofobia e emotività di fronte allo spettacolo disumano di persone in condizioni estreme, si sono rafforzati ancora di più e abbiamo lasciato perdere.
Dopo aver girato per il centro della città e ed esserci persi per le sue vie, che comunque valgono la pena di essere visitate, nel tardo pomeriggio abbiamo deciso di prendere uno degli autobus che passano dal centro per andare verso il Cerro e fermarci nella zona dove molti minatori vivono. Qui abbiamo trovato un mercato, cibo di strada, tanta gente in giro e minatori di ritorno dal lavoro.
Mi sono soffermata a fare delle foto al cibo di strada e alle signore che lo servivano e proprio accanto a loro c’era un simpatico signore che ci ha salutato. Non abbiamo potuto fare a meno di iniziare a chiacchierare e chiedere di lui. Così abbiamo conosciuto Raúl: poco più di 60 anni, ex minatore andato in pensione per problemi ai polmoni. Malattie respiratorie e in particolari la silicosi sono spesso le causa più frequente di morte tra i minatori.
Il livello di sicurezza nelle miniere secondo Raúl è migliorato negli ultimi anni rispetto a quando era giovane, ma qualche mese prima del nostro viaggio due ragazzi poco più che ventenni sono stati inghiottiti da una delle sempre più frequenti frane del Cerro Rico. Uno dei corpi è stato ritrovato, l’altro è sempre sepolto da qualche parte in quell’inferno in terra che è l’ex montagna d’argento più ricca al mondo.
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[…] giorno 19: Potosì […]
[…] Viaggiare in Bolivia è stancante per le condizioni delle strade e degli autobus è vero, ma i mezzi non mancano sicuramente. Ogni città ha il suo terminal con tante compagnie di bus che servono quasi tutti i punti del paese e oltre. Noi per esempio siamo arrivati da Potosí. […]
Sto pensando ad un qualcosa da dire, ma non credo che ci siano tante parole adatte a questo posto così infernale. E’ agghiacciante: 500 gallerie, le persone che hanno e continuano a perdere la vita, le condizioni di lavoro, la “sepoltura” forzata… è veramente atroce. Grazie per aver indicato il libro di Galeano che sicuramente lo comprerò, anche se credo che questa lettura sia decisamente una discreta botta di vita
Un mondo assurdo, si. Il libro di Galeano non è una passeggiata, è pieno di date e informazioni ma sicuramente ti farà aprire gli occhi 🙂